Vai al contenuto

Tessere l’universo

Basta un pezzo di stoffa per rappresentare l’universo?

Si possono esorcizzare le paure profonde dell’uomo attraverso i decori del proprio mantello? 

In Bolivia, scrigno di straordinario interesse per etnografi ed antropologi, esistono piccoli tesori. Qui miriadi di comunità hanno sviluppato una propria visione dell’universo ed una propria capacità di adattamento alle severe condizioni ambientali che, grazie all’isolamento, sopravvivono e si esprimono ancora con vivacità. 

La Fundaciòn ASUR di Sucre ed il Museo de Arte Indìgena ad esso collegato (www.asur.org.bo), operano per tutelare e conservare questo patrimonio. Il Museo espone prevalentemente tessuti antichi e contemporanei delle comunità dell’altopiano ed è proprio sull’iconografia di questi tessuti, che sono veri documenti etnografici, che poniamo l’attenzione. Capi sopravvissuti agli anni, che ci fanno riscoprire una concezione antica dell’universo dove, con un’estetica molto originale, si coniugano materialità, vita quotidiana e spiritualità.

La collezione offre la rappresentazione simbolica ed iconografica del sapere comune. “Mondo di sopra” e “mondo di sotto”, armonia, ordine o lotta tra le forze del bene e del male, espressi su tela con fantasia e sapiente competenza tecnica.

La cultura locale viene tramandata dalle donne con elementi di assoluta originalità. Pur utilizzando i medesimi materiali di tutte le altre popolazioni andine, le comunità Quechua dell’area di Sucre e Tarabuco, dai tempi più remoti producono, con tecniche semplici e rudimentali, tessuti unici ed originalissimi. Tre sono gli stili esposti, ciascuno identificativo di una comunità.

Solare è la rappresentazione del mondo dei Tinguipaya: prevale l’astrattismo con colori vivaci e lo spazio tessuto è composto da motivi ripetitivi che rappresentano l’ordine e la distinzione tra cielo e terra. L’effetto è luminoso. 

I Tarabuco-Yampara tessono invece cotone e lana e la loro produzione si distingue per il fondo chiaro e gli spazi ben definiti, con bande simmetriche che delimitano uno spazio centrale. Qui si svolgono le attività umane, riprodotte con dettagli e colori. Dentro il rassicurante ordine dell’universo si muovono gli uomini.

Altri hanno minori certezze e producono pezzi veramente fuori dall’ordinario che destano il nostro interesse per originalità: le comunità Jalq’a. Un antico capo è preso a simbolo del Museo: su fondo scuro si vedono intricate forme rossastre.

La tessitrice disegna un paesaggio misterioso e irreale, una voluta confusione di figure reali e fantastiche che evocano un universo profondo, interiore, opposto al cielo. Visualizzando demoni, anime trapassate, animali immaginari (khuru) disposti senza un centro o un punto di riferimento che permetta all’uomo di orientarsi, si esorcizzano le paure e si evocano le leggende. Condor, scimmie esseri umani annichiliti, disegnati accanto alle presenze più inquietanti dell’immaginario e delle leggende orali. Questi stessi motivi, rigorosamente bicolori (rosso/nero) decorano capi di uso cerimoniale o di uso comune, come i tradizionali agsu (mantelli) indossati dalle donne.

Questo Museo è l’unico ad esporre, con questa ricchezza, a livello nazionale, una collezione di questo particolare stile, del quale possiamo apprezzare lo sviluppo negli ultimi cento anni. Una sala ospita tessitrici all’opera.

Qui osserviamo una serie di modelli che nulla hanno a che vedere con l’iconografia dei Paesi andini limitrofi. Non stilemi naif della realtà quotidiana, ma intricate rappresentazioni dell’universo, simboliche rappresentazioni del mondo reale e di quello spirituale, esorcizzazione delle paure. 

La Fondazione ha avviato un Progetto di Rinascimento dell’Arte Indigena che mira a creare fonti di sostentamento in una delle regioni più povere del Paese, valorizzandone la cultura, stimolando il recupero di modelli tradizionali ma anche l’elaborazione di una nuova iconografia, espressione della contemporaneità di gruppi dinamici e vivi, non di meri custodi di una tradizione cristallizzata in un remoto passato. 

Claudia Sangiorgi

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *